Storia della Chirurgia delle Varici


 

Fondazione dr. Glauco Bassi                                                                            L. Tessari (Trieste)

Viviamo in un’era in cui da più parti si ravvisa l’impellente desiderio di passare alla storia o per una scoperta o per un’invenzione o per nuove tecniche operatorie che portino il proprio nome.
Il desiderio di immortalare se stessi lo si ravvisa dall’enorme incremento di riviste, articoli, pubblicazioni che creano una giungla informativa dove trovare qualcosa di utile è veramente un’impresa e dove spesso si riciclano per nuove conoscenze già dei nostri avi.
Non si può passare alla storia senza conoscerla!
In quale epoca le varici abbiano cominciato a far parte delle malattie di pertinenza chirurgica non è possibile stabilire nemmeno per approssimazione .
Un accenno ad un trattamento chirurgico delle varici viene fatto da HIPPOCRATE (460 – 377 a.C.) che sconsigliava i chirurghi dell’epoca ad incidere le varici in casi di gambe congestionate, violacee, edematose, nel timore di causare ulcerazioni croniche.
D’altra parte il celebre bassorilievo del Museo Nazionale di Atene che rappresenta una gamba affetta da una safena varicosa, magnificamente riprodotta in tutti i suoi particolari anatomici dimostra che già nel secolo quarto avanti Cristo vi erano pazienti che ringraziavano gli Dei per l’ottenuta guarigione delle vene varicose, non sappiamo se per opera umana o divina.
Dal punto di vista strettamente tecnico la prima testimonianza di un trattamento chirurgico delle varici è quella fatta da PLUTARCO a proposito dell’intervento subito da CAIO MARIO nell’86 a.C.
La più antica documentazione scritta di un trattamento delle varici veramente chirurgico è rappresentata dalle descrizioni di AULO CORNELIO CELSO (25 a.C. – 50 d.C.) i metodi di cura da lui descritti sono due e cioè col fuoco e con il ferro: nel primo, antesignano se vogliamo della scleroterapia che secondo l’autore meglio si addice alle varici rettilinee, non troppo voluminose, “incisa la cute e scoperta la varice, con un ferro rovente si cauterizza la vena per la lunghezza di quattro  dita  traverse,  avendo  cura  di  non  scottare i bordi della ferita; nel secondo con il bisturi, invece, CELSO praticava una dissezione accurata della varice dai tessuti circostanti sollevandola con l’uso di uncini, la asportava resecandola senza legare gli estremi venosi come invece successivamente faranno GALENO ( 130 – 210 d.C.) ORIBASIO (325 – 403 d.C.) EZIO DI AMIDA (502 – 575 d.C.) e PAOLO EGINETA (607 – 690 d.C.);
quest’ultimo descrive in maniera particolareggiata questa tecnica: “si comincia con lo stringere un laccio alla radice della coscia perché le vene si inturgidiscano, si segna quindi con l’inchiostro il decorso della vena, coricato poi il paziente si stringe un secondo laccio al di sopra del ginocchio, si incide quindi la pelle lungo la linea segnata, si isola la varice dai tessuti circostanti, sollevandola con degli uncini, la si taglia e la si asporta, si passa poi un ago con il filo   sotto   il   moncone   venoso   prossimale   e   distale   e legandolo si ottiene un’ottima emostasi, si ravvicinano infine i margini della ferita.”
GALENO (130 – 210 d.C.) e ORIBASIO (325 – 403 d.C.) che però lo attribuisce ad ANTILLO descrivono un altro metodo di estirpazione delle varici: “un filo viene passato con la guida di uno specillo nella vena varicosa e legato con un estremo all’estremo della varice sezionata, quindi la trazione sull’altro capo del filo provoca l’asportazione della varice per arrovesciamento o invaginazione”, ed ecco le basi storiche dello stripping invaginato su filo poi mirabilmente descritto da KELLER nel 1905 e successivamente standardizzato da J. VAN DER STRICHT nel 1963.
HALY ABBAS alla fine del primo millennio ed ALBUCASIS DI CORDOVA (1013 – 1106 d.C.), famosi medici arabi, seguaci di PAOLO EGINETA, descrissero le varici, la loro eziologia dal punto di vista della dottrina umorale e la tecnica delle legature multiple.
Nel Medio Evo i metodi cruenti, forse a causa degli insuccessi frequenti lasciarono il posto a quelli incruenti conservativi, mentre si ricorreva ai primi solo nei casi particolarmente gravi:
GUI DE CHAULIAC (1300 – 1368 d.C.) chirurgo francese riproponeva fiducia nella dieta e nel salasso, dal punto di vista chirurgico incideva le vene e faceva uso del cauterio, fu apparentemente il primo ad evacuare i coaguli dalle vene trombizzate.
AMBROGIO PARE’ (1510 – 1590 d.C.) chirurgo militare francese applicava sulla cute sovrastante la varice sostanze necrotizzanti allo scopo di provocare la trombosi, e praticava anch’esso come Paolo EGINETA la legatura delle varici al terzo medio della coscia.
A GERONIMO FABRIZIO D’ACQUAPENDENTE (1533 – 1619 d.C.) medico ed anatomico italiano si deve la scoperta delle valvole venose fatta nel 1574 e da lui esattamente descritte nel libro “DE VENORUM OSTIOLIS”.
A WILLIAM HARVEY (1578 – 1657 d.C.) medico ed anatomico inglese si deve nel 1628 la scoperta della circolazione sanguigna da lui descritta nel suo libro “ESERCITATIO ANATOMICA DE MOTU CORDIS”.

RICHARD WISEMAN (1621 – 1676) chirurgo militare inglese fu il primo ad intuire che l’incompetenza valvolare era dovuta alla dilatazione venosa ed ad introdurre il bendaggio compressivo come alternativa alla chirurgia nelle piaghe varicose ed il suo gambaletto in pelle è particolarmente famoso.
PIERRE DIONIS (1668 – 1718) famoso chirurgo di corte francese descrisse accuratamente le valvole venose e ridabì l’importanza della compressione avvalendosi di calze di lino grossolano o di pelle di cane e preferì adottare una condotta terapeutica conservativa, avendo la chirurgia deluso le sue aspettative.
JEAN LOUIS PETIT (1674 – 1750) primo direttore dell’Accademia di chirurgia di Parigi eseguiva l’escissione radicale delle vene varicose e fra le cause eziologiche delle stesse nominava, la gravidanza, le giarrettiere strette, e la stazione eretta prolungata.

 

LORENZ HEISTER (1683 – 1758) chirurgo tedesco praticò la flebotomia e la legatura percutanea delle vene varicose precedendo in tal modo DAVAT (1837) di circa 100 anni.
Sir EVERARD HOME (1756 – 1832) chirurgo inglese cognato di JOHN HUNTER addebitò l’insufficienza delle valvole alla pressione idrostatica del sangue ed osservò i benefici effetti esercitati dalla legatura della grande safena sulla rimarginazione delle ulcere croniche.

TOMMASO RIMA (1777 – 1843) chirurgo italiano rende nota nel 1825 (quindi 21 anni prima della pubblicazione di SIR BENJAMIN COLLINS BRODIE (1783 –1862) a cui gli inglesi attribuiscono la scoperta) la sua teoria sul movimento inverso del sangue venoso come causa ed effetto delle varici e la relativa cura consistente nella legatura della safena sopra l’articolazione del ginocchio, a queste conclusioni TOMMASO RIMA giunse in seguito ad alcune osservazioni:
  1. Leggendo i commenti che GIAN BATTISTA MONTEGGIA (1762 – 1815) fa nelle sue “ISTITUZIONI CHIRURGICHE” a proposito dell’operazione di HOME.
  2. Avendo visto un caso operato con la tecnica di HOME da CARLO CAIROLI con buon esito.
  3. Avendo osservato: a) che le vene varicose vuote, a paziente orizzontale si

 riempiono rapidamente dall’alto in basso se si passa alla
stazione eretta.
b) che a paziente a decubito supino le varici vuote si
riempiono  sotto i colpi di tosse.
c) che nelle donne varicose che portano giarrettiere sotto il
ginocchio le varici appaiono turgide solo sopra la      giarrettiera stessa.
TOMMASO RIMA però un po’ per sfortuna, un po’       perché osteggiato non ottenne quei buoni risultati e la successiva fama che  ebbe invece 66 anni dopo FRIEDRICH   TRENDELEMBURG (1844 – 1924).

I metodi chirurgici nella prima metà del secolo scorso ebbero spesso risultati disastrosi data la totale mancanza di ogni conoscenza sull’asepsi e ciò favorì la ripresa di metodi di terapia flebosclerosante soprattutto merito della scoperta della siringa ipodermica da parte di CHARLES GABRIEL PRAVAZ nel 1851.
I metodi chirurgici risorsero naturalmente con la scoperta dell’asepsi e dell’antisepsi e si affermarono rapidamente per i loro risultati indubbiamente superiori a quelli delle iniezioni sclerosanti (a cui spesso facevano seguito flebiti purulente o embolie settiche, come emerse dal CONGRESSO DI LIONE DEL 1894) e portarono i vari chirurghi ad interventi sempre più vicini al massimo radicalismo.
Passiamo ora in rassegna alcuni degli interventi più significativi della fine del secolo scorso e degli albori di questo:
OPERAZIONE DI MADELUNG (1884) (operazione che gli AUTORI FRANCESI riportano per lo più sotto il nome di ALGAVE, che vi portò il suo contributo nel 1909): attraverso due lunghe incisioni alla coscia ed alla gamba si asporta tutta la safena interna dalla radice della coscia fino al malleolo interno, operazione fortemente deturpante che spesso dà luogo a retrazioni cicatrizziali così vaste che possono anche provocare ostruzioni del sistema linfatico con conseguente quadro elefantiasico.
OPERAZIONE DI TRENDELEMBURG (1891): il chirurgo tedesco all’inizio legava la safena magna sopra il ginocchio in corrispondenza del condilo femorale interno alla stesso modo di TOMMASO RIMA. In seguito l’interruzione della vena venne portata più in alto in prossimità della regione inguinale con l’aggiunta da parte di LANGENBECK – TAVEL – JACOBSON (1912) della resezione di un piccolo tratto di safena all’inguine.

 

 

OPERAZIONE DI SCHEDE (1893): incisione circolare a monte ed a valle della varice o della piaga, non molto profonda, ma tale da interrompere tutto il circolo venoso superficiale a quei livelli. Tale tecnica venne modificata da MORESCHI (1894) che praticava lo stesso taglio ma più profondo fino all’aponeurosi muscolare.
OPERAZIONE DI SCHIASSI (1908): il chirurgo italiano contrariamente a TAVEL che già quattro anni prima legava la safena alla coscia ed alcuni giorni dopo iniettava una piccola dose di fenolo, legava la safena ed iniettava il liquido sclerosante (soluzione iodo-iodurata) nella stessa seduta.
OPERAZIONE DI RINDFLEISCH e di FRIEDEL (1908): consiste in un taglio spiroidale che incide cute e sotto- cute fino all’aponeurosi muscolare si può estendere a tutta la gamba ed a volte a parte della coscia.
Le varici sezionate vengono legate tra due lacci. Ad ovviare l’ingente edema dovuto all’interruzione della circolazione linfatica. KOCHER (1916) propose di incidere l’aponeurosi muscolare per favorire l’anastomosi fra i linfatici superficiali e profondi.

Si tratta in complesso di interventi piuttosto traumatizzanti seguiti da un’alta percentuale di recidive (67% MILLER) che lasciano cicatrici deturpanti, per questo alcuni Autori cercarono pur mantenendo il principio della necessità dell’interruzione della safena di semplificarne la tecnica o modificando la stessa o ricorrendo all’uso di speciali strumenti.

Arriviamo quindi a descrivere i quattro interventi chirurgici che sono tuttora, pur con le modifiche apportate dai vari Autori nel corso dell’ultimo secolo, i cardini della Flebochirurgia del ventesimo secolo ed ancora in uso da parte di molti flebochirurghi, non senza aver prima ricordato che WILLIAM MOORE (1859 – 1927) già dal 1896 insisteva sulla ambulatorietà della terapia chirurgica delle vene varicose come poi sostenne e divulgò DE TAKATS nel 1930 e come finalmente attualmente noi pratichiamo.
OPERAZIONE DI NARATH (1904): consiste nella legatura in alto della safena, si praticano poi diverse incisioni sul decorso della vena ectasica a distanza di 10-12 cm l’una dall’altra e si asporta per via sottocutanea il segmento intermedio. Con questo intervento NARATH precorre di molti anni l’attuale flebectomia per incisioni multiple ben codificata dal MULLER.
OPERAZIONE DI KELLER (1905): dopo aver legato la safena in alto si introduce un filo metallico nella stessa che viene legato all’estremo della vena da estirpare. La trazione delicata all’altro capo del filo provoca estirpazione della safena per invaginazione della stessa. Questo intervento molto simile a quello di ANTILLO precorre di anni l’attuale stripping invaginato su filo o su meches.
OPERAZIONE DI MAYO (1906) legata la safena in alto alla crosse. MAYO eseguiva la safenectomia per mezzo di un particolare strumento costituito da un’asta metallica munita alla punta di un anello tagliente che veniva fatto scorrere lungo la safena provocando la dissezione di tutte le collaterali e delle perforanti. Numerose sono le varianti di questa tecnica e le modifiche al tipo di strumento. Le ultime in ordine di tempo sono quelle di JEAN MARC TRAUCHESSEC e di STEFANO RICCI.
OPERAZIONE DI BABCOCK (1907): BABCOCK modificando la tecnica di KELLER e quella di MAYO ideò una sonda flessibile con la quale praticava una safenectomia per via sottocutanea: ecco come viene descritto questo    intervento.
“Si pratica in anestesia locale una piccola incisione all’estremità prossimale e attraverso un piccolo foro nella vena si introduce in essa una sonda di acciaio inossidabile flessibile del diametro di 2-3 millimetri e della lunghezza di 70 cm.
Questa sonda porta all’estremità due sfere di cui una più piccola dell’altra. Guidando la sonda con movimenti delicati si riesce quasi sempre a percorrere un lungo tratto di vena; a questo punto si pratica una seconda
incisione nella cute ed un piccolo foro nella parete venosa dal lume della quale si fa afforiare la sonda. Si applica poi un laccio all’estremità prossimale della vena facendo in modo che la sferetta rimanga completamente fuori, poi con movimenti di trazione delicati si estrae la sonda che porta con sé il tronco principale della vena. Nella manovra si lacerano le collaterali che danno a volte delle soffusioni ematiche mai molto imponenti nel  sottocute.
Negli anni vennero poi apportati perfezionamenti di tecnica (insistendo soprattutto su una meticolosa crossectomia allargata) e numerose modifiche allo strumentario (sostituendo le sfere fisse con ogive o cilindri intercambiabili più o meno taglienti (MYERS – OLIVIER) fino agli attuali stripper in teflon monouso o con l’uso di criosonde (LE PIVERT).
Conclusione: questo escursus storico merita di essere concluso con una frase dell’amico maestro JEAN VAN DER STRICHT nell’allocuzione fatta in ricordo del mio maestro GLAUCO BASSI a dieci anni dalla sua scomparsa: “Peut être le besoin de créer, de se sentir créateur, nous porte t’il parfois, inconsciemment, à fermer le yeux sur ce que le prédécesseur ont déjà réalisés. Ingratitude, certes, mais surtout stupidité. Quelle perte de temps, d’énergie à vouloir refaire le chemin bien tracé et exploré par quelques prédécesseur de génie. Aussi, je vous le dis, à vous jeunes phlébologues, suivez les préceptes de BASSI dans votre pratique quotidienne et ne publiez rien sans richercher d’abord ce que BASSI en avait dit. Ainsi vous n’enfonceres pas le portes ouvertes.”